“Out Of Place Artifacts” - oggetti fuori posto - è un termine coniato nel 1996 dal naturalista e criptozoologo americano Ivan Sanderson per dare un nome a una categoria di oggetti che sembrerebbero avere una difficile collocazione storica, ossia rappresenterebbero un anacronismo. Vengono classificati in questo modo tutti quei reperti archeologici o paleontologici che, secondo comuni convinzioni riguardo al passato, si suppone non sarebbero potuti esistere nell'epoca a cui si riferiscono le datazioni iniziali.
Da questi ritrovamenti, è nato il filone dell'archeologia misteriosa o pseudoarcheologia. La comunità scientifica non ha mai trovato in tali oggetti elementi o prove che le facessero apparire come "fuori dal tempo", relegando le interpretazioni volte a sottolineare presunti anacronismi nell'ambito della pseudoscienza. Molti artefatti di questo tipo hanno infatti ricevuto un'interpretazione del tutto coerente con le attuali conoscenze archeologiche e scientifiche. In tutti quei casi in cui non si è data una risposta, ciò si deve al fatto che non si è ancora capito il tipo di utilizzo che aveva l'oggetto o la descrizione dell'oggetto appare fumosa e inesatta oppure non si conosce il possessore dell'oggetto tanto da farne dubitare circa l'effettiva esistenza.
VAI A: 01:11 La Pila di Baghdad
Nel 1936 alcuni operai impegnati nella costruzione di una ferrovia vicino a Baghdad dissotterrarono, a Khujut Rabu'a (sito di un antico villaggio mesopotamico) una tomba coperta da una lastra di pietra. Nel corso dei due anni successivi il Museo Iracheno di Baghdad ne estrasse un gran numero di oggetti artistici risalenti al periodo dei Parti (248 a.C. - 226 d.C.). Al tedesco Wilhelm Konig, allora direttore del Museo, fu sottoposto un oggetto costituito da un vaso di argilla gialla, in cui era cementato un cilindro di rame lungo 9 cm e largo 26 mm, chiuso anche dall'altra estremità da un tappo di asfalto, e al cui interno si trovava una barra di ferro. Sul fondo del cilindro era fissato un disco di rame, isolato con asfalto. Il fatto che i metalli apparivano erosi portò Konig a ipotizzare che si potesse trattare di una sorta di batteria elettrica.
Venuto a conoscenza della scoperta, un ingegnere americano, Willard F. M. Gray, costruì nel 1940 un modello funzionante di questa pila. Lo riempì di solfato di rame come elettrolito e scoprì che esso produceva effettivamente corrente elettrica, finche l'elettrodo di ferro non viene ricoperto da uno strato di rame. Altri scienziati, come Jansen, usarono benzochinone, una sostanza facilmente estraibile dalle secrezioni di alcuni centopiedi, mescolato con aceto. Ma tutti questi processi elettrochimici funzionano male, poiché manca nella pila di Baghdad un meccanismo che separi gli elettroliti che reagiscono con i due elettrodi.
In effetti questo, come qualsiasi oggetto formato da due metalli, potrebbe funzionare come rudimentale pila se immerso in una soluzione acida. Ma usando rame e ferro come metalli, sarebbe difficile ottenere una corrente di intensità apprezzabile, e soprattutto si esaurirebbe nel giro di pochi minuti. Si potrebbe ovviare a questo problema usando come elettrolita acidi forti, ma sconosciuti all'epoca.
Konig venne a sapere che una serie di oggetti analoghi , forse provenienti dalle rovine di Ctesifonte, l'antica capitale dei Parti non distante da Baghdad, erano custoditi dal Museo di Berlino. Egli si recò quindi in Germania ad analizzare questi tre grandi vasi, uno contenente dieci cilindri di rame, un altro dieci tondini di metallo e l'ultimo contenente tappi di asfalto. Essi presentavano inoltre tracce di corrosione, e ritenne quindi di avere di fronte i resti di un gruppo di pile simili a quella trovata dall'equipe del suo Museo.
Questa nuova scoperta fece concludere a Konig che una serie di batterie erano state messe insieme per aumentare il voltaggio al fine immediato di placcare elettroliticamente gioielli in oro e argento.
Ma i reperti finora ritrovati non hanno nessuna evidenza, o evidenza discutibile di essere elettroplaccati. A sostegno di questa ipotesi Konig descrive come gli artigiani di Baghdad ancora oggi usino una tecnica particolare di doratura galvanica. La corrente necessaria viene generata dall'ossidazione di un pezzo di zinco immerso nell'acqua salata, e collegato elettricamente all'oggetto da dorare. Tale tecnica però è molto simile a quella adottata in Europa nel secolo scorso e non è da escludere che il procedimento usato in Iraq sia un adattamento di quest'ultimo.
Dobbiamo poi dire, per correttezza, che possiamo anche considerare l'oggetto come un contenitore di rotoli sacri, utilizzati a scopi magici o propiziatori. Diversi metalli erano utilizzati per rappresentare le divinità, e non sono rari oggetti simili usati a questo scopo. Ma anche se l'ipotesi della "pila" fosse corretta non dobbiamo stupirci. La storia ci insegna che sono molte le scoperte promettenti, dalle potenzialità enormi, perse però nel corso del tempo senza che ci fossimo mai accorti delle loro vere potenzialità.
VAI A: 01:11 Il Meccanismo di Antikythera
In una teca un po' appartata del Museo Nazionale di Atene si trova un curioso oggetto che, a prima vista, assomiglia a un blocco di ruggine. Osservandolo meglio, ecco che si vedono emergere dalle incrostazioni i denti di alcuni ingranaggi. Sono in bronzo, e costruiti con incredibile precisione; si direbbe che appartengono a un moderno orologio abbandonato nell'acqua marina per diversi anni.
Tale meccanismo fu ritrovato nel 1900 in una nave affondata intorno all’80 a.C. a largo dell’isola di Antikythera, vicino Creta.
Dopo la segnalazione alle autorità del ritrovamento, gli archeologi lavorarono sul relitto sino al settembre del 1901. Tra i reperti ripuliti vennero individuati un'intera serie di ruote dentate, parte di un meccanismo, molte delle quali con iscrizioni.
Il relitto, a giudicare dalla ceramica facente parte del carico, fu fatto risalire al I secolo a.C.. Alcuni archeologi dissero che il meccanismo ritrovato era troppo complicato per appartenere al relitto. Degli esperti sostenevano che i resti provenissero da un astrolabio, mentre altri erano convinti appartenessero ad un planetario. Le varie polemiche e supposizioni arrivarono ad un punto morto ed il mistero di Antikitera rimase irrisolto.
Nel 1951 il professor Derek de Solla Price cominciò a studiare il meccanismo esaminando minuziosamente gli oggetti e riuscendo, dopo circa vent'anni di ricerca, a riassemblare i pezzi ed a scoprire lo scopo del congegno. Risultò essere una sorta di computer per calcolare i calendari solare e lunare. Le varie ruote riproducevano il rapporto di 254:19, per ricostruire il moto della Luna in rapporto al Sole, tenendo in considerazione il fatto che la Luna compie 254 rivoluzioni siderali ogni 19 anni solari.
Probabilmente, il congegno faceva parte del carico e non serviva d'ausilio per la navigazione. Se questa fosse la vera funzione del meccanismo di Antikitera, ci fornirebbe conferma ad accenni letterari che indicavano esperimenti, di scienziati greci di quell'epoca, su macchine astronomiche.
Ad esempio, Cicerone scrisse che il filosofo Posidonio aveva realizzato un globo che mostrava i moti del Sole, delle stelle e dei pianeti come appaiono in cielo. Egli annotò anche che Archimede aveva concepito un modello che imitava i movimenti dei corpi celesti.
Una recente analisi, basata su dettagliate scansioni ai raggi-X del meccanismo, fatta da Michael Wright, curatore dell Istituto di Ingegneria meccanica al Museo delle Scienza di Londra, ha portato all'individuazione dell'esatta posizione di ogni ingranaggio. Tutto questo ha portato a pensare che Price avrebbe sbagliato una serie di osservazioni e che avesse manipolato il numero dei denti degli ingranaggi che erano incompleti.
Wright ha trovato prove che il meccanismo di Antikythera sarebbe stato in grado di riprodurre accuratamente il moto del sole e della luna, usando un modello epiciclico elaborato da Ipparco, e dei pianeti Mercurio e Venere, usando un modello epiciclico elaborato da Apollonio di Perga. Ha inoltre dichiarato che il meccanismo deve essere stato costruito mediante l'ausilio di antichi attrezzi, anche se la realizzazione di una ruota metallica dentata implica l'utilizzo di lame sofisticate ed un altissima abilità.
Se solo si pensa che i primi calendari ad ingranaggi, simili ma meno complessi di quello di Antikythera, furono realizzati a partire dal 1050 d.C., bisogna rivedere il nostro pensiero sull'antica tecnologia greca.
VAI A: 01:11 Le mappe impossibili
Osservate un comune planisfero: vedrete che l'Europa occupa quasi il centro della carta. Questo perché le carte geografiche sono nate in Europa, ed è quindi logico che il vecchio continente si sia riservato il posto d’onore. Ora, che direste se trovaste una carta antichissima, la più antica di quelle giunte fino ai giorni nostri, con il “punto di vista” radicalmente spostato?
Tendereste a dedurre che qualche civiltà avanzata e a noi ignota s'è sviluppata nel luogo raffigurato al centro della carta. Che direste poi se la carta mostrasse territori che, almeno secondo la storia, nessuno, allora, avrebbe potuto conoscere? Esiste il rischio di cadere in ipotesi molto fantasiose.
Eppure il volume “Maps of the Ancient Sea Kings”, scritto da Charles Hapgood nel 1966, riproduce diverse decine di queste carte “impossibili”. Hapgood è uno studioso affermato e autorevole, stimato persino da Albert Einstein, che cerca di non abbandonarsi a voli di fantasia, ma non può fare a meno di chiedersi: chi disegnò queste carte, e quando?
Già nel Medioevo correvano leggende su carte geografiche che pochi navigatori privilegiati custodivano come preziosi tesori. Tali carte riportavano dettagliate descrizioni delle coste di "terre sconosciute", e si narra che persino Cristoforo Colombo ne possedesse una, che gli avrebbe permesso di compiere il suo famoso viaggio. Le carte venivano tramandate di padre in figlio -racconta sempre la leggenda -e diligentemente aggiornate generazione dopo generazione.
La più nota delle "carte impossibili" è la Carta di Piri Re’ is, ovvero dell'Ammiraglio Piri. Fu rinvenuta nel 1929 nel palazzo Topkapi di Istanbul; l'ammiraglio Piri l'aveva disegnata nel 1513, utilizzando "venti fonti" tra le quali "alcune provenienti dall'epoca di Alessandro il Grande". Sulla carta sono tracciate dettagliatamente le coste dell'America (dove Colombo era giunto solo pochi anni prima) e, fatto assai sorprendente, quelle delle terre dell'Antartide coperte dai ghiacci, cartografate parzialmente solo nel nostro secolo, con l'ausilio di strumenti moderni.
La maggioranza degli esperti si rifiuta di accettarla, sostenendo che la mappa conterrebbe comunque molti errori e, anche l’attribuzione all’Antartide delle coste disegnate a sud, non è così scontata. Per alcuni, la mappa di Piri Re’is è qualcosa che semplicemente non dovrebbe esistere.
VAI A: 01:11 Pietre di Ica
Sono tra i reperti archeologici più controversi degli ultimi decenni. Ritraggono, inciso su pietra, ciò che la scienza ritiene impossibile: antichi uomini che usano avanzate tecnologie, mappe della terra vista dall'alto e soprattutto scene di uomini e dinosauri insieme.
Sono un abile falso oppure bisogna riscrivere la storia più remota del nostro pianeta e dell'uomo?
Come sappiamo i resti archeologici dimostrano che le culture peruviane risalgono a diverse migliaia di anni fa e in molte aree, soprattutto quelle separate da deserti, si svilupparono culture specifiche e uniche. In periodi successivi tutto il Perù moderno fu unificato in un'unica unità politica e culturale, culminando nell'Impero Inca - dal XIII al XVI secolo - seguito infine dalla conquista spagnola dalla fine del 1500 in poi.
E’ il 1966 quando il dottor Javier Cabrera, medico chirurgo e docente di biologia, riceve da un campesinos di Ica, in Perù, una pietra incisa come ringraziamento per aver curato suo figlio.
Cabrera la usa come fermacarte fino a quando, sfogliando un manuale di paleontologia, riconosce nel disegno inciso la sagoma di un pesce estinto ormai da milioni di anni.
Quale popolo aveva potuto disegnare con quella precisione un animale così antico?
Cabrera, deciso ad approfondire, ricontatta il campesino, Basilio Uchuya, e con grande stupore scopre che di quelle pietre ce ne sono a migliaia, tutte provenienti da una grotta nel deserto di Ocucaje, apertasi dopo l'alluvione del Rio Ica nel 1961.
Le pietre hanno dimensioni variabili, ve ne sono alcune piccole come un uovo, altre pesanti fino a mezza tonnellata. Nei successivi 35 anni furono ottenute più di 15.000 pietre di andesite fortemente carbonizzata, quindi di antica origine vulcanica, incise con tecniche diverse, tra cui altorilievo e bassorilievo, conosciute ormai come le “Pietre di Ica”.
Cabrera da quel momento dedicò la sua vita all’analisi e alla ricerca su queste pietre, tanto da trasformare il suo studio in un vero e proprio Museo, contenente circa 11.000 pezzi, e descrisse molte delle scene in un saggio, cercando di raccontare la storia della presunta civiltà che, secondo lui, aveva creato le misteriose pietre.
Nelle pietre si vedono chiaramente uomini usare strumenti ottici moderni come cannocchiali e te le scopi, per scrutare il cielo e seguire, per esempio, il percorso di una cometa. Operazioni chirurgiche incredibilmente complesse, trapianti di cuore con tanto di circolazione extracorporea, trapianti di reni, fegato e cervello, oltre a parti cesarei. E poi, uomini impegnati in battaglia Cavalcando strani velivoli meccanici, piante sconosciute in Sudamerica e animali ormai estinti con il loro ciclo biologico completo. Ed infine, scene di uomini e dinosauri insieme.
Anche le analisi effettuate nel corso degli anni per poter attribuire una datazione alle pietre risultò complessa ed ambigua. Le pietre di Ica, infatti, sono fatte di andesite e non possono essere datate usando la datazione al radiocarbonio, che si applica soltanto alla materia organica.
Per poterle datare sarebbe sufficiente analizzare gli strati in cui sono sepolte, ma nessuno sa da dove provengano esattamente. In ogni caso, come rileva anche Paolo Attivissimo, “qualsiasi datazione di questo genere indicherebbe l'età del sasso, ma non direbbe nulla sull'epoca in cui sono state realizzate le incisioni. La datazione delle incisioni è possibile osservando, appunto, l'erosione: se non c'è, vuol dire che sono recentissime.”
Col passare del tempo, purtroppo, vennero a galla numerose informazioni che iniziarono a minare pesantemente la credibilità della storia delle Pietre di Ica. Primo tra tutti le dichiarazioni dello stesso Uchuya, che, in un'intervista con Erich von Däniken nel 1973, confermò di aver contraffatto le pietre copiando le immagini da fumetti, libri di testo e riviste. Nel 1977, poi, nel documentario della BBC “Pathway to the Gods”, lui stesso creò una Pietra di Ica “autentica” con un trapano da dentista e dichiarò di aver prodotto la patina cuocendo le pietre in sterco di vacca.
Per i sostenitori dell’autenticità di tali reperti Uchuya lo avrebbe fatto per non rischiare di finire in prigione per traffico di reperti archeologici.
In ogni caso nel 1998 l'investigatore spagnolo Vincente Paris, dopo quattro anni di investigazioni, fornì le prove definitive che si trattasse di una frode, rilevando da un lato tracce di pittura moderna e carta vetrata nelle incisioni, dall’altro forti incongruenze sulle scene rappresentate.
VAI A: 01:11 Le Lampade di Dendera
A dare inizio a tutto è stato Auguste Mariette, l'archeologo francese che ha fondato il Museo Egizio del Cairo.
Nel 1857 condusse una campagna di scavo nel basso Egitto a circa 70 km da Tebe, che è stata per circa 1000 anni l'antica capitale, in una località chiamata Dendera, che in antico egiziano significa “La Città della Dea”. Proprio qui è presente un importante tempio dell’epoca greco romana dedicato alla Dea Hathor.
Sotto il tempio Mariette trova delle ampie cripte, ormai piene di sabbia e detriti che, una volta ripulite, mostrano numerose stanze, coperte di lastre di pietra incise. Mariette disegna scrupolosamente, come era solito fare, tutte le inscrizioni che trova, e in seguito, negli anni 30, un altro francese, Emile Chassinet, riesce a fotografare le incisioni.
Li per lì non ci fanno caso, eppure tra quelle incisioni è raffigurato qualcosa di strano. Qualcosa che non sarebbe potuto esistere.
Dendera è stato per secoli un luogo di culto. Le stanze sotterranee fanno parte del primo nucleo del tempio, che ufficialmente risale al XV secolo a.C., anche se alcune iscrizioni riportano a tempi ancora più remoti. La parte superiore, invece, è di età Tolemaica, tra il 300 a.C. e il 30 d.C., un'epoca terminata con la regina Cleopatra.
Ma cos'hanno di strano le incisioni conosciute come le lampade di Dendera?
In una scena che ritrae i sacerdoti del tempio mentre celebrano dei riti, si notano delle figure che sorreggono dei grandi oggetti, oggetti non vengono rappresentanti in nessun altro luogo o geroglifico. Non solo questi oggetti, anche ad un occhio superficiale, ricordano tantissimo delle grandi lampade, complete di filo e filamento interno, ma in realtà l’oggetto è incredibilmente uguale ad un oggetto simile costruito nel 1879: una lampada in grado di emettere raggi X.
Le lampade di Dendera, quindi, secondo alcuni, sarebbero il progenitore del tubo di Crooks, un tubo elettronico a catodo freddo in grado, appunto, di produrre raggi X.
Anche in questo caso curiose coincidenze alimentano le ipotesi più ardite. Sarà un caso, ma lo scienziato inglese inventore dell'omonimo tubo, sir William Crooks, ultimo i suoi studi 10 anni dopo la pubblicazione dei disegni di Mariette di Dendera, e c'è chi dice che questi disegni, cioè le famose lampade, abbiano potuto ispirare le sue ricerche.
Ma non tutti vedono nelle iscrizioni di Dendera qualcosa di anormale.
Per l'egittologia ufficiale, infatti, quello che campeggia sulla parete sarebbe solo un enorme fiore di loto. Il gambo del fiore di loto è stato interpretato come un cavo elettrico di alimentazione; un sostegno che rappresenta parte della colonna dorsale del dio Osiride - lo Zed - verrebbe invece interpretato come un avvolgimento elettrico e dei serpenti raffigurerebbero le serpentine che si trovano all'interno dei tubi di Crookes. Infine, un dio tiene in mano due pugnali, e questo viene interpretato come un segnale di pericolo che si troverebbe proprio in corrispondenza del punto in cui dal tubo di Crookes escono i raggi X.
Infine i due Djed, oggetti di culto rinvenuti in molti disegni e bassorilievi egizi ma la cui funzione è tuttora incerta e dibattuta, uniti a ciascuna delle (presunte) lampade, svolgerebbero la stessa funzione dei nostri moderni isolatori elettrici.
VAI A: 01:11 I teschi di cristallo
Mio padre stava facendo degli scavi in America Centrale, nell'Honduras Britannico (l'attuale Belize). Scoprimmo le rovine di una città Maya, che, secondo lui avevano qualcosa a che vedere con Atlantide, per cui continuammo a scavare per sette anni. Poi, un giorno, tra le pietre, vidi qualcosa che scintillava. Era il mio diciassettesimo compleanno, e la cosa mi riempì di gioia
A parlare è Anna Mitchell Hedges, ed è la figlia adottiva di Mike Mitchell-Hedges, un personaggio molto popolare durante gli anni Venti.
Avventuriero inglese ambizioso e intelligente, Mike Mitchell-Hedges faceva la spola tra le due Americhe, esercitando i più disparati mestieri e frequentando indifferentemente il mondo dei miliardari e quello dei soldati di ventura.
La cosa "che scintillava", lo straordinario regalo di compleanno che aveva riempito di gioia la giovane
signorina Mitchell-Hedges, è uno degli oggetti più misteriosi mai rinvenuti durante uno scavo archeologico: un Teschio di Cristallo, un cranio a grandezza naturale scolpito in un unico, immenso blocco di purissimo cristallo, lavorato con incredibile perizia e precisione.
Secondo la prima edizione dell'autobiografia di Mitchell-Hedges (Danger My Ally, 1954), il teschio di cristallo, da lui chiamato Teschio del Destino, avrebbe almeno 3600 anni e sarebbe stato usato dai sacerdoti Maya, che con i suoi poteri sarebbero stati in grado di uccidere con la sola forza del pensiero. A suo dire, sarebbe stato fabbricato manualmente dai Maya lavorandolo per abrasione con la sabbia, con infinita pazienza, ininterrottamente per circa trecento anni.
I Mitchell-Hedges furono sempre molto sbrigativi e sfuggenti nel fornire maggiori spiegazioni sul ritrovamento. Si scoprì in seguito che il teschio era stato acquistato ad un'asta, a Londra, nel 1943.
I teschi di cristallo sono recentemente tornati alla ribalta grazie al quarto capitolo della saga cinematografica di Indiana Jones - “Indiana Jones e il regno dei teschi di cristallo”, del 2008.
I teschi sarebbero legati ad antichi riti e tradizioni Maya, e avrebbero grandi poteri magici.
Alcuni sensitivi asseriscono di poter avere visioni del futuro semplicemente guardando il teschio negli occhi. Si dice anche che ridere in faccia al teschio porti a morte certa. Negli anni Settanta iniziò a circolare la voce che ne esisterebbero in tutto 13, uno principale e 12 secondari.
Se si riunissero in un unico luogo accadrebbero eventi portentosi o calamità planetarie.
In effetti il teschio Mitchell-Hedges non è l’unico esemplare di teschio di cristallo conosciuto.
Attualmente se ne contano 8.
Tre si trovano in altrettanti Musei: il British Museum di Londra, Musée du Quai Branly di Parigi e al National Museum of Natural History di Washington. Tutti gli altri sono in possesso di privati.
Pur essendo tutti di diverse dimensioni e con diverse fattezze, tutti presentano la medesima caratteristica: essere ricavati da un unico pezzo di quarzo trasparente..
Per diverso tempo i teschi di cristallo sono stati fatti risalire ad epoca precolombiana, come manufatti della civiltà Maya. I Maya, in effetti, erano molto abili nel lavorare le pietre con altre pietre in combinazione con altri strumenti di legno e rame, utilizzando poi sabbie abrasive per la levigazione.
Tuttavia, queste tecniche, non avrebbero consentito una lavorazione così precisa.
Sin dagli anni 70, e fino alla fine degli anni 90, i teschi sono stati oggetto di numerose analisi scientifiche, effettuate in particolare sui teschi nei musei e su quello di Mitchell-Hedges.
Sono stati individuati segni di una lavorazione moderna.
Questo ha portato a rivalutare l’origine dei teschi, facendo crescere l’ipotesi che siano stati realizzati nella seconda metà dell’800, probabilmente in Germania, dove la contraffazione di manufatti precolombiani era molto popolare.
Interessante notare che sia il teschio esposto a Londra, che quello di Parigi, provengono entrambi dalla collezione di un antiquario parigino, Eugène Boban. è possibile che lui sia la fonte anche del teschio Mitchell-Hedges, poiché risulterebbe molto simile (anche se migliore poichè dotato di mandibola mobile) di quello di Londra.
In passato, proprio intorno al teschio inglese si erano catalizzati racconti secondo cui il teschio si muovesse all'interno della teca o si illuminasse. Per un periodo si disse anche che il teschio fosse stato rimosso dall'esposizione aperta al pubblico vista la sua presunta pericolosità.
Oggetti senza dubbio affascinanti, anche se non troppo misteriosi.