Probabilmente oggi il popolare evento “La notte della Taranta” non esisterebbe se nella seconda metà degli anni ‘50 il fenomeno del tarantismo non fosse stato studiato e documentato in particolare da Ernesto De Martino, uno dei più grandi antropologi italiani.
Nel 1959 l'antropologo giunse infatti in salento insieme ad un'equipe di esperti.
L'obiettivo era quello di studiare il tarantismo e verificare se fosse una patologia medica o la manifestazione di un rito di passaggio.
Da quell’esperienza fu tratto un saggio dal titolo “La terra del rimorso”, e un documentario, girato da un giovane Gianfranco Mingozzi, dal titolo “La Taranta”, commentata dal poeta Salvatore Quasimodo.
Per la prima volta questo rito antico usciva dai confini del Salento per essere conosciuto e scoperto dal grande pubblico.

Le credenze popolari parlavano di un mitico ragno, la taranta, che nei mesi estivi pizzicava le sue vittime nei campi, per lo più donne, provocandole uno stato di malessere generale. La sola terapia era il ballo. La tarantata, vestita completamente di bianco, sotto l'effetto della musica, dava inizio ad una danza isterica, accompagnata da nastri colorati e da una specifica musica, la pizzica. La ritualità della liberazione seguiva uno schema molto preciso. Così lo descrive recentemente Luigi Chiriatti, esperto delle tradizioni popolari del Salento, intervistato da Raffaele Avico

Nel rito di cura del tarantolato i movimenti sembrano iniziare confusi, ma poi si sincronizzano gradualmente con il ritmo della musica. In una prima fase il tarantolato si muove e si contorce come il ragno che l'avrebbe avvelenato, nella seconda fase invece si alza in piedi e li batte per terra come voler schiacciare quel ragno, finché non cade a terra esausto dichiarandosi libero dallo spirito del ragno che la possedeva. In realtà erano necessarie molte sessioni di questo tipo per scacciare il male, che poteva durare e ripresentarsi anche per anni. Per questo la tradizione suggeriva a tutti i tarantolati di recarsi a Galatina il 29 giugno, festa di San Paolo, di fronte alla Chiesa a lui dedicata, per chiedere la Grazia.

Lo stretto legame del tarantismo con il culto di San Paolo affonda anch’esso nella leggenda.
La tradizione racconta infatti che San Paolo, scampato al morso di un serpente, durante uno dei suoi viaggi giunse a Galatina, nel Salento, dove fu ospitato da una persona pia. Per ringraziarla dell’ospitalità, le donò la virtù di guarire chi fosse stato morso da un animale velenoso, dandogli da bere l’acqua del suo pozzo. Sopra quella casa fu costruita la chiesa dei Santi Pietro e Paolo, e ogni anno, il 29 giugno, le tarantolate venivano condotte qui per bere l’acqua miracolosa del pozzo.

Il tarantismo, il male del cattivo passato che torna e continua il suo tormento, ebbe origine dalla contaminazione di riti orgiastici e iniziatici pagani fra l'800 e il 1300.

Ma proprio grazie al legame con il culto di San Paolo, che si strutturò intorno al 1700, il tarantismo trovò uno strano equilibrio anche con il mondo del Sacro.

In passato si è cercato di interpretare e spiegare il tarantismo dal punto di vista medico e scientifico, a cominciare dall’individuazione del ragno che sarebbe responsabile del morso. Il ragno, identificato, con la specie Lycosa Tarantula, era presente in tutta Italia e in buona parte dell’Europa, ma nella maggior parte dei territori veniva, a ragione , considerando innocuo. Solamente nel territorio pugliese la puntura di questo ragno provocava tali effetti; diversi sono i medici che, fin dal XVII secolo, tentarono di capire la causa di tale differenza che fu quasi sempre attribuita al caldo torrido della regione. Pochi, tra i medici interessati al fenomeno, compresero la natura psicologica del male, che spesso definirono come ‘alienazione mentale’. De Martino riuscì nel suo obiettivo di dimostrare come il tarantismo non fosse una malattia reale, ma bensì simbolica. L’antropologo napoletano inserisce infatti il fenomeno in una complessa rete di rapporti culturali, riuscendo a ritrovare le radici di questo fenomeno nel mondo greco, medievale, cristiano, fino nei culti afroamericani.

Dedica una parte importante della sua ricerca a questa archeologia dei simboli: il morso, il veleno, il ragno. I simboli compongono schemi schemi e sequenze seguendo una logica interna nella quale le persone possono dare sfogo, voce e movimento a pulsioni interne, a reazioni inconsce che segnalano in realtà un disagio esistenziale.

Ed è qui che entra in scena l’azione curativa del ballo, della musica. Svolta con fini differenti la musica e la danza rituale è presente in ogni cultura. L’armonia musicale che contribuisce all’armonia del corpo e dello spirito è un elemento antropologico e culturale ricorrente. Così ne parlava il Dott. Tullio Seppilli, professore di Antropologia medica, intervistato da Giuliano Capani nel 2001.

Non dobbiamo però tralasciare le implicazioni sociali del tarantismo. Il fenomeno si inquadra in un territorio specifico, il Salento, che soprattutto nel periodo del dopoguerra viveva un momento particolarmente difficile. Così il poeta Salvatore Quasimodo, nel documentario di Gianfranco Mingozzi del 1959, ne dipingeva i tratti.

Il tarantismo diventa quindi espressione di un disagio sociale. Un disagio legato sicuramente alla povertà e alle fatiche del lavoro nei campi. In un contesto fatto di rapporti sociali limitati e formali. Il tarantismo è momento di sfogo, in cui i propri disagi vengono letteralmente ‘messi in piazza’, teatralizzati, ostentati, finalmente ‘vissuti’ e dunque esorcizzati. E non a caso le tarantolate erano soprattutto giovani donne. E non certo perché avendo le vesti più corte erano più facilmente bersaglio del morso della taranta. Le donne erano vittime di una particolare esclusione e vivevano in condizioni di emarginazione: le loro relazioni, infatti, venivano limitate ai parenti ed al vicinato. A ciò si accompagnava una forte repressione della sessualità, che nella cultura contadina tradizionale era vissuta in maniera restrittiva, considerata un argomento inopportuno. Per queste ragioni di frequente queste crisi esplodevano durante l’età dello sviluppo, nel periodo della pubertà, in cui tipicamente le pulsioni emergono con una forza impetuosa. Ecco perchè a volte le tarantate assumevano movenze provocatorie e disinibite, assolutamente estranee alla vita sociale ordinaria. Anche attraverso le forti espressioni sessuali presenti nei canti della pizzica si comprende come il fenomeno fosse una valvola di sfogo.

A questa richiesta ritualizzata da parte della tarantata, la comunità reagisce con un risposta altrettanto rituale. La famiglia vive il momento con apprensione, prodigandosi per la cura della tarantata, spendendo in questa pratica i frutti del duro lavoro nelle campagne. I familiari non dubitano né dell’esistenza del ragno, né della realtà della crisi, né del potere salvifico della musica e di San Paolo.

La ‘pizzica’ è la musica e la danza tipicamente usata durante le ritualità connesse al tarantismo. Questa assume particolare rilevanza nella cultura salentina anche al di fuori di quel contesto. In contesti ‘laici’ la danza diventa infatti occasione di socializzazione e di svago, sia all’interno che all’esterno del nucleo familiare e domestico.

Contrariamente a quello che si può immaginare la prima edizione dell’opera di De Martino ebbe uno scarso successo. Solo alla fine degli anni ‘70 nasce una una riscoperta del tarantismo, che comprende anche la rinascita dell’interesse verso le musiche e le danze tradizionali, prima fra tutti la pizzica.
Il mito della taranta, ormai svuotato dei suoi significati rituali e dei simboli tradizionali originari, diventa quindi disponibile ad accogliere nuove funzioni e nuovi utilizzi.
E’ in questo scenario che nasce il primo gruppo pugliese di ricerca folklorica, il “Canzoniere Grecanico Salentino”, fondato dalla giornalista pugliese Caterina Durante.
Ma fu con la nuova edizione del libro di De Martino, nel 1994, che al contrario della precedente fu un grosso successo, che iniziò un percorso di riscoperta e crescente popolarità di queste tradizioni, soprattutto all’interno della comunità Salentina.

Per approfondire gli aspetti legati in maniera particolare alla sfera musicale ho contattato il musicista Claudio “Cavallo” Giagnotti, voce dei Mascarimirì e uno dei protagonisti indiscussi della pizzica contemporanea e del percorso che ha portato al successo, dagli anni 90 a oggi, la pizzica e in generale la tradizione musicale salentina.

Tra passato e presente il ritmo ancestrale della pizzica continua ancora oggi a darci una sensazione di leggerezza, di armonia, di piacere dell’anima.
Ancora oggi troviamo nelle sue note, nel suo ritmo, la cura per liberarci dal nostro malessere.